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Ormai è chiaro: servirà tempo prima di un allentamento monetario, ma sia BCE che FED sembrano aver raggiunto il picco della stretta. Sono infatti arrivate le tanto attese conferme del raffreddamento inflattivo. Mentre proseguono i conflitti che agitano il pianeta, la COP 28 ha finalmente fissato un traguardo unanime per l’obiettivo Net Zero.
Tutto come da previsioni per la BCE. Nella riunione di dicembre, l’Eurotower ha lasciato invariati i tassi d’interesse per la seconda volta consecutiva. Ormai, visto il rallentamento dell’economia e quello dell’inflazione, il picco della stretta dovrebbe essere stato raggiunto. Ogni parola viene però pesata dagli analisti per capire i prossimi passi. E anche in questo caso arrivano conferme: la BCE tiene una linea cauta, ribadendo che i tassi resteranno ai livelli attuali “per un periodo sufficientemente lungo”. Si teme infatti un rialzo inflattivo nei prossimi mesi.
François Villeroy de Galhau, Governatore della Banca di Francia e membro del Consiglio direttivo della BCE, è stato più esplicito. Ha affermato che ci dovrà essere un taglio nel 2024, ma solo al termine di un periodo piuttosto lungo di tassi costanti. L’obiettivo sarebbe rivedere l’inflazione al 2% (soglia ritenuta ottimale dai vertici europei) nel 2025.
Anche la Federal Reserve ha dato continuità, lasciando i tassi invariati per la terza volta consecutiva (aveva iniziato la stasi un mese prima della BCE). La mossa era ampiamente prevista. Ecco perché l’attenzione si è spostata dalle decisioni alle previsioni.
Oggi i tassi sono ai massimi da 22 anni. Nel 2024 dovrebbero scendere – ha stimato la FED – al 4,6%. Vuol dire che l’ente guidato da Jerome Powell taglierà i tassi per tre volte. Il ritmo dell’allentamento monetario, quindi, dovrebbe aumentare rispetto alle precedenti stime, che ipotizzavano due tagli e tassi al 5,1%. Il rallentamento dell’inflazione statunitense sta quindi concedendo schiarite, verso quel “soft landing” auspicato dal presidente della FED: un “atterraggio morbido” che porti in modo graduale a una nuova fase di politica monetaria.
Come sempre e ancora di più negli ultimi mesi, le banche centrali guardano ai dati sull’inflazione. Il rallentamento è evidente. A novembre 2023, certificano i dati ISTAT, l’indice nazionale dei prezzi al consumo ha registrato una diminuzione dello 0,5% su base mensile e un aumento dello 0,7% su base annua, in decisa frenata rispetto al +1,7% registrato a ottobre. E allora perché la BCE non sta ancora tagliando?
I motivi sono, principalmente, due. Il primo è che l’Eurotower non guardaai singoli Paesi ma all’inflazione nell’intera Area Euro, che secondo Eurostat è – seppure in frenata – ancora al 2,4%. La seconda ragione sta nel fatto che l’obiettivo fissato dalla BCE è sì l’inflazione al 2%, ma nel lungo periodo. Deve quindi muoversi adagio, per evitare aspettative eccessive di bassa inflazione che potrebbero tornare a infiammare i prezzi.
Tra il 30 novembre e il 13 dicembre si è tenuta la 28esima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la COP 28. Il summit è iniziato tra le polemiche, vista la designazione a presidente di Sultan al-Jaber, direttore generale dell'ADNOC, l'agenzia petrolifera degli Emirati Arabi Uniti. Nel corso della conferenza si sono però raggiunti alcuni risultati, come sempre frutto di negoziati e compromessi. Il più importante è stato senza dubbio l’, per la prima volta unanime, a ridurre i combustibili fossili e raggiungere l’obiettivo Net Zero entro il 2050.
Tra gli altri accordi sottoscritti, rientranol’impegno a triplicare la capacità di energia rinnovabile globale entro il 2030, ad affrontare l’impatto dell’industria agroalimentare e a stimolare gli investimenti sostenibili, con fondi dedicati alle soluzioni per contrastareil cambiamento climatico.
Prima la guerra in Ucraina e le sue ripercussioni sulle forniture di gas, adesso le conseguenze del conflitto israelo-palestinese. Il mondo ha “riscoperto” la geopolitica: le tensioni innescano ripercussioni a livello globale, che spaziano dal piano politico a quello economico. Anche con conseguenze imprevedibili, come il collegamento tra l’attacco a Gaza e il traffico marittimo globale.
Cinque grandi compagnie hanno infatti deciso di evitare Mar Rosso e Canale di Suez, optando per la circumnavigazione dell’Africa. Un cambio di rotta che comporta due settimane in più di viaggio. La scelta è dovuta al rischio di attacchi da parte degli Houthi, una milizia yemenita sostenuta dall’Iran in chiave pro-Hamas. Al momento, hanno fatto sapere le autorità egiziane, appena 55 navi hanno deciso di doppiare il Capo di Buona Speranza anziché attraversare il Canale di Suez. Ma se il volume dovesse aumentare, le catene di approvvigionamento di tutto il mondo potrebbero accusare ritardi.
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