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KRISIS

KRISIS – I retroscena dell’economia moderna con Federico Buffa

Le crisi finanziarie intaccano la nostra vita, non solo i mercati. 

Questo è vero anche quando gli effetti di uno shock economico non sembrano direttamente legati alla quotidianità che viviamo. Cosa vuoi che ci accada se in Cina si scatena la peggiore delle speculazioni sul renminbi? O se il mercato immobiliare americano a un certo punto collassasse? O ancora: come potrebbero la demografia giapponese o il terrorismo internazionale influenzare le nostre abitudini di spesa o la nostra occupazione?

La storia ci racconta che, ad ogni shock economico, qualcosa cambia. Le persone e i mercati si scontrano con la paura, affrontano l’incertezza, imparano da quel che è andato storto e creano reti di protezione per evitare che quanto accaduto si verifichi di nuovo. A volte con successo, altre meno. 

Ma non solo. 

La storia ci insegna anche a guardare oltre la crisi, a quei casi di successo o a quelle intuizioni che, senza farsi condizionare da un clima economico complesso, sono riuscite a ritagliarsi un’opportunità. Si pensi ad esempio che, mentre scoppiava la crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti, aprendo una voragine nell’economia moderna, Steve Jobs rivoluzionava l’industria tecnologica lanciando il primo iPhone…!

La follia finanziaria e l'isteria collettiva che spesso dominano decisioni finanziarie complesse non aiutano ad affrontare gli shock di mercato, ma li esasperano. Bisogna invece restare aperti al cambiamento e alle lezioni che solo un momento di crisi porta con sé. Anche se può non sembrare immediato, “crisi”, etimologicamente, deriva dal greco κρίσις ovvero “scelta”, e coincide con il momento della consapevolezza e della scoperta della verità, il prodromo di una decisione e di conseguenza dell’azione. 

Si ispira a questo concetto la nuova serie podcast di Pictet Asset Management dal titolo “KRISIS - I retroscena dell'economia moderna con Federico Buffa”, realizzata in collaborazione con l’Audio Factory Dr Podcast.

L’obiettivo di KRISIS è fornire uno strumento che racconti la storia economica degli ultimi 50 anni in modo diverso, calandosi nella realtà di quel periodo e nei pensieri delle persone. Una storia dall’effetto dirompente che, in qualche modo, ha determinato il costo della vita che viviamo, le tasse che paghiamo, le regole dei mercati finanziari e delle istituzioni globali e, ovviamente, il nostro modo di investire. 

Una storia spesso trascurata, diversa dalla versione classica che troviamo sui libri di testo, che ci coinvolge in prima persona e che ci porta dentro al racconto come protagonisti. 

Ogni giovedì, a partire dal 15 febbraio e per 12 settimane consecutive, pubblicheremo una nuova puntata su Spotify e sulle principali piattaforme streaming e sui nostri canali social.

Questa nuova serie si affianca alle tre serie di podcast già realizzate da Pictet AM Italia con Federico Buffa: “Mercati Emergenti”, “Megatrend” e “InconsciaMente". 

Ascolta subito il trailer di: KRISIS - I retroscena dell'economia moderna con Federico Buffa
1973

L’elemento scatenante della crisi petrolifera del 1973 è l'embargo al petrolio dell'OPEC contro gli Stati Uniti e altri paesi occidentali nel contesto della Guerra del Kippur, il conflitto arabo-israeliano, in cui l’Occidente si schiera a supporto di Israele. L'embargo porta a un improvviso aumento del 400% dei prezzi del petrolio, passati dai 2,75 dollari al barile del gennaio 1973 ai 12 dollari al barile del marzo 1974, generando una grave crisi energetica in tutto il mondo occidentale.

I più colpiti dalla crisi, però, non saranno gli americani, bensì i Paesi dell’Europa occidentale: se l’import Usa di petrolio arabo a quei tempi si attesta al 4%, la Gran Bretagna ne importa infatti il 30%, la Germania Ovest il 38%, la Francia il 53%, e l’Italia il 60%. 

L’aumento dei prezzi del petrolio determina un trionfo economico per i Paesi arabi, ma impatta in modo significativo l'economia globale, impoverendo il PIL mondiale del 3% e ingenerando un periodo di inflazione più alta. Per rispondere alla crisi, molti paesi (tra cui l’Italia) adottano politiche di conservazione energetica, riducendo il consumo di carburante del 10-20% e promuovendo fonti di energia alternative. Specie nel Vecchio Continente si assiste alla crescita di interesse verso il gas naturale e l'energia atomica per limitare l'uso del greggio e la dipendenza dai Paesi estrattori. La Norvegia diventa altresì strategica dopo aver scoperto nei fondali del Mare del Nord nuovi giacimenti petroliferi. 

Nel mondo sviluppato si diffonde la consapevolezza della fragilità e della precarietà del sistema produttivo occidentale, nonché la pericolosa interdipendenza di un mondo già globalizzato. 

Cosa ci insegna la crisi petrolifera del 1973

La crisi petrolifera del 1973 ha avuto un impatto duraturo sull'economia mondiale e ha portato a una maggiore consapevolezza del concetto di sicurezza nazionale e diversificazione delle fonti energetiche. Ha anche evidenziato la vulnerabilità delle economie globali ai cambiamenti dei prezzi del petrolio e alle dinamiche geopolitiche tra Paesi (tramite l’utilizzo del petrolio come arma). 

Sfortunatamente, non ha però determinato un cambio di passo deciso. Servono giusto tre numeri per dare l'idea del problema: 39, 23, 46, pari ai livelli di dipendenza dell'Unione Europea da gas, petrolio e carbone russo appena prima dello scoppio della guerra russo-ucraina del 2022. Prima che ci si accorgesse quindi, nuovamente, che dipendere eccessivamente da una sola potenza mette a rischio la vita delle persone e di interi sistemi economici.

In breve, cosa ci insegna la crisi petrolifera del 1973:

  • L’importanza della diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico
  • Il bisogno di differenziare i flussi da Paesi diversi, limitrofi e alleati (re-shoring, near-shoring e friend-shoring)
  • L’urgenza di investimenti volti a conseguire un’indipendenza energetica in nome della sicurezza nazionale
  • La necessità di un miglioramento delle tecniche produttive per avere di più con meno
  • Il costo-opportunità di avere linee di produzione ottimizzate
  • L’investimento a lungo termine che risiede nel promuovere una maggior sensibilità ecologica 
Ascolta ora la puntata "1973: la crisi petrolifera"
1991

L'elemento scatenante della crisi economica giapponese del 1991 è il crollo del prezzo degli asset immobiliari ed azionari, che avevano raggiunto livelli insostenibili a causa di una speculazione eccessiva, politiche monetarie accomodanti e un fervente ottimismo. Alla fine degli anni '80, la bolla inizia a rivelarsi e a mostrare segni di cedimento. 

Il crollo viene innescato da una serie di fattori, il principale dei quali è l’aumento dei tassi di interesse da parte della Bank of Japan per contrastare una dinamica dei prezzi fuori controllo, favorita dal “denaro troppo facile”. L’effetto è immediato: la speculazione si arresta, ma si somma all'eccessivo indebitamento delle imprese e alla consapevolezza di un mercato immobiliare gonfiato, provocando lo scoppio della bolla. 

Per stimolare l’economia, il Giappone riapre i rubinetti della liquidità. Secondo la BoJ, introdurre liquidità nel sistema dovrebbe aiutare a incrementare gli investimenti, la produttività e la forza lavoro, sostenendo la crescita economica e la domanda. Tuttavia, alla crescita di moneta disponibile non segue l’auspicata ripresa: la liquidità, anziché sugli investimenti, finisce parcheggiata sui conti corrente; le persone non spendono e mettono da parte per tempi migliori; neanche la variabile demografica aiuta: mano a mano che la popolazione invecchia, cresce la tendenza al risparmio. A completare il quadro, poi, la mancanza di immigrazione e il mancato adeguamento al cambiamento tecnologico. A partire dagli anni Novanta, infatti, si inverte la gerarchia tra hardware e software nel mondo: la crescita globale dei brevetti software (la cui expertise è in mano agli Usa) è vertiginosa, mentre quella dei brevetti hardware (area di specializzazione giapponese) si riduce. Parallelamente, crolla l’output scientifico nipponico mentre sale enormemente quello americano.

Il Giappone cade vittima della trappola di liquidità, sprofondando in una recessione.

Cosa ci insegna la bolla giapponese del 1991:

La bolla giapponese si porta dietro conseguenze importanti. Tra queste, una naturale perdita di ricchezza e una stagnazione economica che si rivelerà estremamente difficile da depennare: iniziano qui i tre decenni perduti del Sol Levante. La risposta del governo non si fa attendere, con politiche a sostegno e riforme strutturali i cui effetti faticano però a prendere piede in un clima di diffidenza, caratterizzato da deflazione e pressione sul debito pubblico.

L’eccesso di liquidità, l’invecchiamento della popolazione e la perdita di primato tecnologico si riveleranno sufficienti per ridimensionare le ambizioni economiche del Giappone.

In breve, cosa ci insegna la bolla giapponese del 1991:

  • La necessità di una gestione prudente delle politiche monetarie per bilanciare stimoli economici ed eccesso di leva finanziaria
  • L’utilizzo di politiche fiscali in modo responsabile per sostenere l'economia in fasi di difficoltà, evitando il deterioramento del bilancio fiscale
  • L’effetto distorsivo sulla crescita generato dagli eccessi di politica espansiva e dalla troppa liquidità di mercato (euforia economica e speculazione)
  • La demografia influenza l'economia: una popolazione meno giovane intacca gli equilibri di domanda/offerta di beni e servizi, la generazione di nuove idee e il sistema pensionistico e sanitario
  • Innovazione e ricerca sono fondamentali per promuovere la competitività di un Paese
  • L’importanza di una regolamentazione efficace e una supervisione stringente (bancaria e finanziaria) per promuovere la stabilità finanziaria
Ascolta ora la puntata "1973: la bolla giapponese"
1992

La crisi della lira italiana del 1992 nasce anzitutto da una combinazione di fattori di rischio, quali: elevati livelli di indebitamento pubblico (che supera per la prima volta il 100% del PIL), bassa crescita economica, inflazione progressivamente più alta e una politica monetaria anticonvenzionale di svalutazione ripetuta della moneta. A questo si aggiunge il clima generalizzato di sfiducia nei confronti del progetto di Unione europea, dopo la decisione della Danimarca di non ratificare il trattato di Maastricht e di conseguenza l’ingresso nell’UE. 

I mercati iniziano a speculare contro le valute più deboli dello SME, l’accordo monetario nato per dare stabilità al mercato dei cambi dei Paesi (con una fascia di oscillazione del ± 2,25%) e per permettere la libera circolazione di capitali e creare una stabilità monetaria in Europa dopo un decennio di profonde crisi valutarie. Tra le prime divise a pagarne pegno ci sono la sterlina britannica e la lira italiana a causa delle debolezze strutturali dell'economia (il 16 settembre 1992 sarà ribattezzato il "Black Wednesday" dei cambi europei). In due giorni Italia e Regno Unito annunciano l'uscita dallo Sistema Monetario Europeo. Anche peseta spagnola, scudo portoghese e sterlina irlandese finiscono a quel punto nel vortice delle vendite.

Il debito pubblico italiano raggiunge livelli insostenibili, portando il governo a implementare misure di austerità fiscale per controllare la situazione. La Banca d'Italia interviene per sostenere la lira, spendendo miliardi di dollari delle riserve valutarie nel vano tentativo di sostenere il tasso di cambio. Non solo: inizia l’era delle privatizzazione: ENI, ENEL, Telecom Italia, Autostrade, e così via. Si crea, all’improvviso, un mercato per i risparmi privati, ma il sistema produttivo italiano è fortemente intaccato. Lo stato imprenditore non c’è più, ma non ci sono neanche i grandi investimenti imprenditoriali, in particolare gli investimenti diretti esteri. 

La crisi della lira, in un anno critico per l’Italia, segnato dalla patrimoniale (il prelievo forzoso dello 0,6% dai conti correnti), dallo scoppio del caso Mani Pulite e dalla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, spingerà a implementare importanti riforme strutturali. Il primo impegno sarà rivolto a ridurre il deficit di bilancio; il secondo, a migliorare la propria competitività economica. 

Cosa ci insegna la crisi della lira del 1992

Sebbene il 1992 sia stato un anno nero per l’Italia, la svalutazione della lira darà un impulso alle esportazioni, portando all’internazionalizzazione di molte imprese italiane e dando loro la possibilità di farsi conoscere all’estero per qualità ed eccellenza. Nonostante il clima di incertezza domestica, ostacolo agli investimenti informatici delle imprese italiane nella modernizzazione dei sistemi di produzione e gestione (e che portò le aziende del Bel Paese a restare indietro rispetto alle altre economie sviluppate), l’Italia riuscirà ancora per qualche tempo ad approfittare degli spiragli al di là dei propri confini. 

Il ‘92 segna l’inizio di un duro percorso di risanamento e ristrutturazione volto a rendere l’economia italiana più integra, nonché a prepararla a quello che sarebbe arrivato solo qualche anno più tardi con l’ingresso nell’Unione monetaria e i vincoli europei. 

In breve, cosa ci insegna la crisi della lira del 1992:

  • Il costo-opportunità di una politica monetaria votata alla svalutazione, positiva per le esportazioni ma deprimente per l’economia e la forza lavoro
  • L’importanza di indirizzare le azioni politiche verso riforme strutturali di medio-lungo termine
  • L’urgenza di innovare e investire nella capacità produttiva di un Paese e nelle sue aziende (specie piccole e medie) 
  • La necessità di una maggiore convergenza economica tra paesi europei (base di partenza per l'introduzione dell'euro)
  • Il ruolo della regolamentazione finanziaria e dei meccanismi di difesa per prevenire episodi di eccessiva speculazione 
Ascolta ora la puntata "1992: la svalutazione della lira"
1997

Nel 1997, l'Asia si trova ad affrontare una crisi finanziaria senza precedenti che coinvolge diversi paesi, tra cui Thailandia, Indonesia e Corea del Sud. La crisi ha origine con il crollo della moneta tailandese, il baht, che, per effetto contagio, scatena le vendite. 

La crisi è causata da una combinazione di fattori, tra cui ingenti misure interne di stimolo e l’aumento eccessivo del debito. Il governo thailandese si trova incapace di mantenere la stabilità del baht, a causa del deterioramento delle riserve valutarie e del debito fuori controllo. L’unica strada percorribile è la svalutazione della moneta, che genera però il panico tra gli investitori, che in massa ritirarono i propri capitali dal paese. Le economie della regione erano infatti fortemente dipendenti dai capitali esteri, il che le ha rese vulnerabili alla speculazione valutaria e alle fluttuazioni dei mercati internazionali.

La crisi si diffonde rapidamente ad altri paesi della regione, tra cui l'Indonesia e la Corea del Sud, che si trovarono ad affrontare deprezzamenti delle loro valute, fuga di capitali e instabilità finanziaria. Al crollo delle borse valori, fa seguito poco dopo l'aumento della disoccupazione e la contrazione economica.

Per affrontare la crisi, i paesi colpiti devono chiedere assistenza finanziaria alle istituzioni internazionali: entra così in gioco il Fondo Monetario Internazionale (FMI). I programmi di salvataggio richiedono misure draconiane di austerità fiscale e riforme strutturali, che hanno gravi ripercussioni sociali e politiche. 

La crisi finanziaria asiatica del 1997 lascia un segno indelebile nella storia economica della regione, mettendo in luce le vulnerabilità del sistema finanziario e la necessità di riforme per prevenire crisi simili in futuro. Nel corso degli anni successivi, la maggior parte dei paesi riesce a riprendersi e a ricostruire le proprie economie.

 

Cosa ci ha insegnato il crollo delle tigri asiatiche del 1997

Grazie agli interventi del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e ad altre istituzioni finanziarie internazionali, saranno implementate, non senza sacrifici, misure di riforma e di risanamento economico: la Corea del Sud, implementerà con successo politiche di ristrutturazione economica, che contribuiranno al rafforzamento del sistema bancario locale. L'Indonesia e la Thailandia, dopo aver subito danni più gravi, avvieranno programmi di riforma e di risanamento, sebbene il processo di recupero sarà più lento e complesso.

In breve, cosa ci insegna il crollo delle tigri asiatiche del 1997:

  • La vulnerabilità delle economie che si basano pesantemente sui capitali esteri per finanziare la crescita economica, esponendosi al rischio di fuga di capitali e svalutazione
  • L'importanza delle riserve valutarie per affrontare situazioni di emergenza (paracadute da periodi di turbolenza economica)
  • L’esigenza di riconsiderare la dipendenza di un Paese dalle importazioni, promuovendo maggior autosufficienza in settori chiave (agricoltura e l'industria) per ridurre la vulnerabilità agli shock esterni 
  • L’importanza di stimolare la crescita domestica in fasi di difficoltà, insistendo su settori ancora poco sfruttati (ad esempio, il turismo interno)
  • Il ruolo delle istituzioni internazionali nel fornire assistenza finanziaria e supporto tecnico dei Paesi colpiti dalla crisi, a fronte della necessità di migliorare i programmi di riforma imposti come condizioni per il sostegno finanziario
  • I pregiudizi di rischio di tenuta economica delle economie emergenti (rivelatesi motore della crescita globale del 21 secolo)
Ascolta ora la puntata "1997: il crollo delle tigri asiatiche"
2000

Alla fine degli anni '90, la crescita del settore tecnologico esplode, alimentata da un fervore speculativo senza precedenti. Le nuove aziende dot-com, molte delle quali prive di profitti o persino di modelli di business chiari, attirano enormi investimenti da parte di investitori entusiasti, convinti che il potenziale di Internet trasformerà l'economia globale. Nomi come Pets.com (sito di e-commerce per la vendita di prodotti per animali domestici), Webvan (servizio di consegna di generi alimentari online), e Boo.com (negozio di moda con servizio di “prova virtuale” degli abiti) sono sulla bocca di tutti, mentre le startup vengono “inondate” di finanziamenti da parte di venture capitalist e investitori al dettaglio.
Tra il 1990 e il 2000, vengono quotate a Wall Street 4.700 nuove aziende, pari quasi alla somma delle aziende domestiche quotate oggi al NYSE, il mercato azionario più grande al mondo con sede a Wall Street, e al Nasdaq, l’altro mercato di New York dove sono quotate la maggior parte delle aziende tecnologiche. Sui mercati si diffonde la pericolosa credenza che basti semplicemente trasferire un business online per trovare clienti disposti a pagare, a prescindere dal valore del business.

Tuttavia, questa euforia si rivela fugace. Molte aziende dot-com si rivelano ben presto incapaci di generare profitti o, addirittura, di coprire i loro costi operativi. La mancanza di sostenibilità finanziaria alla base di molte di esse porta a una serie di fallimenti a catena. L’indice Nasdaq Composite crolla di oltre l’80% dopo aver toccato il suo massimo storico. Un drawdown che ha conseguenze significative, non solo per le aziende direttamente coinvolte, ma per l'intero settore, verso il quale gli investitori perdono fiducia.
Anche aziende più grandi e consolidate del settore tecnologico subiscono perdite significative durante la caduta del mercato. Tra gli altri, spicca il nome di Amazon, che nonostante i solidi fondamentali, risente delle vendite generalizzate del settore. 
La bolla delle dot-com dimostra che anche le aziende con idee innovative e tecnologie all'avanguardia devono avere un modello di business solido e una strategia sostenibile per avere successo nel lungo termine.

Cosa ci insegna la bolla delle dot-com

La bolla delle dot-com condizionerà in modo pesante il comparto tech e renderà gli investitori più prudenti nel cogliere le opportunità del business digitale. Lascerà però un'eredità di innovazione e disruption capace di plasmare l'economia globale per gli anni a venire. Guardando infatti all’anno 2000 con gli occhi di oggi, molte idee delle dot-com si dimostreranno assolutamente valide e attuali. Tuttavia, a quei tempi, tali idee erano completamente anacronistiche per stare in piedi con le proprie gambe, per via di una infrastruttura e una società non ancora abbastanza sviluppate.

In breve, cosa ci insegna la bolla delle dot-com del 2000:

  • L’importanza della diversificazione: concentrarsi su un settore (invece che su un tema) può esporre a rischi significativi durante fasi di correzione
  • La centralità di una valutazione realistica delle opportunità di investimento in un determinato periodo storico
  • Il ruolo della consapevolezza nel distinguere le mode del momento dalle tendenze secolari
  • Il valore dell’approccio di lungo termine, utile a superare le fluttuazioni del mercato e a beneficiare delle opportunità di crescita sostenibili nel tempo
  • Il fatto che l’innovazione tecnologica da sola non garantisce il successo se non è supportata da una strategia aziendale sostenibile
Ascolta ora la puntata "2000: la bolla delle dot-com"
2001

Nel 2001, l'economia statunitense è in fase di rallentamento. Nel secondo trimestre 2001, il PIL Usa registra la prima contrazione economica dal 1993. Un rallentamento attribuibile a diversi fattori, tra cui l'aumento dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve per contenere l'inflazione, una diminuzione degli investimenti aziendali e una flessione del settore manifatturiero. Inoltre, la bolla delle dot-com, esplosa all'inizio dell'anno, continua a far sentire i suoi effetti, con molte aziende tecnologiche ancora soggette a perdite e fallimenti. Questo contesto economico già fragile rende gli Stati Uniti più vulnerabili agli impatti degli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001.

Dopo gli attentati alle Torri Gemelle, i mercati finanziari subiscono un'immediata e significativa contrazione. L'attacco terroristico scatena una crisi di fiducia negli investitori. La Borsa di New York sospende le negoziazioni per quattro giorni consecutivi, dall’11 al 14 settembre, uno stop senza precedenti dalla Grande Depressione. Quando le negoziazioni riprendono il 17 settembre, i mercati azionari sprofondano, con il Dow Jones che subisce la sua più grande caduta percentuale in un singolo giorno dagli anni ‘30. Gli investitori cercano rifugio nell'oro e nei titoli di Stato, portando a un aumento della volatilità e a un calo dei rendimenti obbligazionari.

L’attentato frena ulteriormente l'economia statunitense, generando la riduzione delle attività commerciali e la perdita di posti di lavoro in settori chiave come il turismo, i viaggi e l'hospitality. Un tema, quello del rallentamento del turismo e dei viaggi internazionali, che colpirà tutto il mondo, vincolando a controlli severi.

Cosa ci insegna l'attentato terroristico dell'11 settembre

Per tamponare il clima di sfiducia, la Fed risponderà tagliando i tassi di interesse a livelli record nel tentativo di sostenere l'economia. A queste faranno seguito misure di stimolo fiscale da parte del Tesoro Usa. 

Gli attentati alle Torri Gemelle dell'11 settembre lasceranno il mondo in una fase di turbolenza e incertezza. Sebbene i mercati daranno nel corso dei mesi successivi prova di resilienza, recuperando gradualmente terreno, il processo di ripresa sarà stato lento e graduale. Le singole nazioni inizieranno a valutare la questione della “sicurezza” in base a un nuovo parametro, alzando l’asticella del rischio e rivalutando i propri accordi internazionali nell’ottica della cooperazione e della trasparenza. 

Il realizzarsi di un evento estremo e altamente improbabile come l’attacco al cuore pulsante degli Stati Uniti riporta al primo posto, in primis in ambito finanziario, l’importanza della gestione del rischio, della gestione delle emozioni e della gestione delle situazioni di criticità, così come l’importanza fondamentale di una pianificazione avveduta. 

In breve, cosa ci insegna l’attentato terroristico dell’11 settembre:

  • La fragilità e la centralità del concetto di “sicurezza” di fronte a eventi catastrofici estremi
  • La rilevanza delle strategie di diversificazione e protezione del portafoglio contro eventi improvvisi
  • Il valore di una pianificazione avveduta, che tenga in considerazione la gestione delle emozioni e delle situazioni di criticità
  • La consapevolezza della fragilità delle nazioni (anche quelle più grandi) di fronte al dramma umano
  • Il ruolo centrale delle istituzioni nell’agire con azioni e parole per infondere fiducia
  • La necessità di un coordinamento volto a limitare i rischi di sistema
Ascolta ora la puntata "2001: il cigno nero del terrorismo"
2007

La causa scatenante della crisi dei mutui subprime del 2007-2008 è la frenetica concessione di prestiti rischiosi garantiti da ipoteca a mutuatari poco affidabili, con scarsa solvibilità o a rischio di credito elevato. 
Tra il 2004 e il 2006, le banche “chiudono un occhio” sulla valutazione dei rischi, sulla qualità dei clienti richiedenti un mutuo e sulle loro reali capacità di rimborso. E questo a causa di pratiche distorsive come la distribuzione di incentivi basati sul volume dei prestiti concessi. 
Per limitare il rischio pendente sugli istituti di credito, questi prestiti, i famosi "subprime", vengono impacchettati in strumenti finanziari complessi noti come "titoli collaterali ipotecari" (Mortgage-Backed Securities, MBS) e "obbligazioni garantite da debiti" (Collateralized Debt Obligation, CDO), per essere poi venduti e scambiati a livello globale, anche tra la clientela al dettaglio. Al crescere dei mutui erogati, la domanda di case sale, i prezzi si fanno più tonici e i prodotti finanziari sui subprime iniziano a riempire i bilanci di banche e risparmiatori. 
Il giro di boa arriva nel 2007, quando il tasso di default sui mutui subprime inizia ad accelerare, accendendo i riflettori sull’aumento dei tassi di insolvenza e di pignoramento delle case. 
I tassi di interesse iniziano a pesare: da giugno 2004 a giugno 2006 passano dall’1% al 5%, rendendo più difficile per i mutuatari subprime far fronte ai pagamenti ipotecari. A questo segue un aumento delle tranche di debito non saldate e una prima diminuzione del valore delle case. La liquidità che gira attorno al mercato immobiliare e ai suoi strumenti viene meno.
In un clima riluttante nei confronti della tenuta economica, le banche che ancora hanno della liquidità decidono di non investirla nel mercato interbancario, oppure accettano di prestarla ad altre banche a interessi molto più alti. Anche il mercato interbancario, nel giro di breve, si trova quindi a dover affrontare una crisi di liquidità, che non permette agli istituti di credito di rifinanziarsi a breve termine per le loro attività di copertura. 
Al Tesoro americano è chiaro che è giunto il momento di intervenire.

Cosa ci insegna la crisi dei mutui subprime del 2007

Il piano di salvataggio che il Tesoro americano metter in atto per affrontare la crisi finanziaria è conosciuto come il Troubled Asset Relief Program (TARP), un piano da 700 miliardi di dollari. Il programma prevede l'acquisto di attività tossiche da parte delle istituzioni finanziarie, allo scopo di stabilizzare il sistema, immettere liquidità e prevenire ulteriori crolli bancari. Inizia così una fase di risiko sotto la direzione del Tesoro. JP Morgan Chase acquisisce Bear Stearns. Bank of America compra Merrill Lynch. A Wells Fargo va Wachovia. Fannie Mae e Freddie Mac, due delle più grandi agenzie federali attive nel settore dei mutui ipotecari, vengono temporaneamente nazionalizzate per stabilizzare i mercati ipotecari. Ma il più grosso salvataggio sarà quello di AIG, American International Group, una delle maggiori compagnie assicurative al mondo, attraverso un pacchetto da oltre 180 miliardi di dollari.

Il 15 settembre 2008 il governo degli Stati Uniti, che già ha assicurato la stabilità del sistema, prenderà la decisione più difficile: lasciar fallire Lehman Brothers, che viene dichiarata insolvente nonostante le enormi dimensioni (il famoso Too big to fail). 
Sui mercati si scateneranno le vendite. Lo S&P 500 perderà il 38% nel 2008, dopo una discesa del 5% nel 2007. Il FTSE 100 calerà di circa il 31%, dopo il -5,5% dell’anno prima. L'Euro Stoxx 50 precipiterà del 44% nel 2008.
L'esplosione della bolla immobiliare negli Stati Uniti porterà a una rapida crescita dei tassi di default sui prestiti ipotecari, causando il crollo dei mercati immobiliari e finanziari, con effetti a catena a livello mondiale, innescando una crisi finanziaria globale senza precedenti.

Dopo lo scoppio della grande crisi finanziaria del 2007-2008, i mercati finanziari subiranno un periodo di grande volatilità e incertezza. Tra gli investitori prevarrà la cautela. Le istituzioni finanziarie saranno soggette a maggiori regolamentazioni e controlli (tra cui l’entrata in vigore di regolamenti come la Dodd-Frank, che limita i rischi che le banche commerciali possono assumersi), mentre i governi interverranno con politiche di stimolo economico e riforme strutturali per favorire la ripresa. Le lezioni apprese dalla crisi porteranno a una maggiore attenzione alla stabilità finanziaria e alla gestione del rischio sistemico, ma anche a pratiche più trasparenti nel settore finanziario, con un'attenzione particolare alla prevenzione di comportamenti rischiosi e fraudolenti.

In breve, cosa ci insegna la crisi dei mutui subprime del 2007:

  • La necessità di una migliore comprensione, gestione e regolamentazione dei derivati finanziari e dei prodotti ad alto rischio
  • Il concetto di stabilità dei mercati, che dipende inderogabilmente da quello di liquidità 
  • Il ruolo della trasparenza e dell'etica nel settore finanziario
  • La responsabilità delle agenzie di rating nel valutare la qualità dei prodotti finanziari
  • L’esigenza di consapevolezza dei rischi finanziari tra gli investitori e la regola d’oro di capire la tipologia di un investimento prima di sottoscriverlo
  • L’approccio prudente alla finanza personale, diversificando per ridurre il rischio
  • L’evidenza che l’acquisto di una casa, anche di una prima casa, è un investimento
Ascolta ora la puntata "2007: la crisi dei mutui subprime"
07cover
2011

La crisi dei debiti sovrani europei del 2011 nasce a seguito delle politiche di basso costo del denaro e di espansione del credito che hanno alimentato l'indebitamento dei Paesi dell'eurozona nella seconda metà nel primo decennio del duemila. Le crisi del nuovo millennio (dalle dot-com ai mutui subprime) hanno accentuato le vulnerabilità delle economie meno solide, mettendo in chiaro i difetti strutturali dell'Unione Monetaria Europea. L'aumento dei tassi di interesse sui prestiti sovrani, unito alla mancanza di una politica fiscale e monetaria coordinata, ha portato alla crisi dei debiti. In particolare, nel 2010 la Grecia si trova in una situazione finanziaria estremamente difficile, per via dell'elevata disoccupazione, della bassa crescita economica, della poca competitività e del ritardo nell’attuare riforme strutturali necessarie per modernizzare l'economia. La scoperta dei problemi finanziari di Atene solleva dubbi sulle finanze di altri Paesi dell'eurozona, alimentando i timori riguardo alla sostenibilità di tutta l'area dell'euro. A ruota, quando i mercati iniziano a dubitare della loro capacità di rimborsare il proprio debito, Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna affrontano le prime difficoltà. La mancanza di solidarietà tra i membri dell'UE e la severità politica nell'attuare misure di austerità, contribuiscono a far riaffiorare nella mente dei risparmiatori i timori di fallimenti e perdite.

La crisi dei debiti sovrani europei sarà tamponata attraverso una serie di misure di stabilizzazione messe in atto dalla Troika, gruppo decisionale formato da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale, che, in cambio dei finanziamenti, avvia un rigido piano di austerity (principalmente misure di trasparenza contabile e tagli alla spesa pubblica). Inoltre, vengono disposti fondi di salvataggio temporanei, come il Fondo europeo di stabilità finanziaria (EFSF) e il Meccanismo europeo di stabilità (MES), per fornire assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà, con l'obiettivo di ristabilire la sostenibilità fiscale e ripristinare la fiducia dei mercati.

Cosa ci insegna la crisi dei debiti sovrani del 2011

La crisi dei debiti sovrani porterà a una maggiore integrazione economica e fiscale all'interno dell'Unione Europea (sebbene ancora imperfetta), con l'istituzione di nuovi strumenti di supervisione finanziaria e di governance economica. Tuttavia, evidenzierà anche le divisioni, le disuguaglianze e la frammentazione tra i Paesi membri, alimentando il dibattito sulla reale “opportunità” di una maggiore solidarietà e convergenza nell'UE.

Complessivamente, la crisi dei debiti sovrani avrà un impatto duraturo sull'economia del Vecchio Continente, metterà a dura prova la coesione dell'UE e richiederà un'azione decisa da parte delle istituzioni europee per evitare il collasso dell'euro e per ripristinare la fiducia dei mercati finanziari. Tra le azioni più celebri, il “Whatever it Takes” pronunciato dall’allora Governatore BCE, Mario Draghi, nel luglio 2012, tramite il quale Francoforte si impegnava ad acquistare, qualora ce ne fosse bisogno, titoli di Stato dei Paesi in difficoltà. 

In breve, cosa ci insegna la crisi dei debiti sovrani del 2011:

  • Il concetto di area valutaria ottimale”, con le sue quattro condizionalità: mobilità del lavoro, mobilità dei capitali finanziari, presenza di sistemi di condivisione del rischio e somiglianza dei cicli economici
  • La centralità di riforme strutturali per tenere sotto controllo i livelli di debito e migliorare la competitività economica
  • L’importanza di un sistema di supervisione finanziaria efficace
  • La necessità di rafforzare l'integrazione economica tra Stati membri, nel rispetto delle peculiarità di ogni Paese
  • La fragilità degli investitori in periodi di incertezza
  • La particolare connotazione (in questo caso negativa) che può assumere un termine finanziario come “spread” in un determinato periodo storico
  • Il ruolo fondamentale della comunicazione nel diramare messaggi volti a preservare la fiducia del mercato
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2015

Nel 2015, la Cina si trova ad affrontare una serie di sfide economiche, tra cui la riduzione della crescita, la fuga di capitali e la svalutazione delle sue riserve valutarie. La crescita economica passa dalle due cifre alla soglia del 7 percento, la più bassa in 25 anni, portando a una serie di preoccupazioni sia a livello nazionale che internazionale. Parallelamente, Pechino si avvia intanto su un percorso di cambiamento per riformare la sua economia, passando da un modello basato sull'export e sugli investimenti a uno più orientato ai consumi interni e ai servizi. 
Nel 2015, la People's Bank of China, la banca centrale cinese, decide di svalutare il renminbi (RMB). Una mossa compiuta principalmente per far fronte alla diminuzione delle esportazioni cinesi e per stimolare la competitività sui mercati internazionali. 
Tra l’11 e il 12 agosto del 2015, la PBoC svaluta, nell’arco di due sedute, la moneta nazionale del 3 percento rispetto al dollaro. Si tratta della più significativa svalutazione dal 1994, dopo dieci anni di rivalutazione del renminbi sul dollaro. La decisione di svalutare il RMB suscita preoccupazioni tra gli investitori e gli operatori finanziari. In primo luogo, perché potrebbe scatenare una guerra valutaria globale, con altri Paesi pronti a rispondere svalutando le proprie valute per mantenere la competitività dell’export; secondo, perché potrebbe generare importanti fuoriuscite dalla Cina, alimentando ulteriormente la fuga di capitali già in corso; infine, c'era la paura che il calo del renminbi aumentasse le tensioni politiche tra la Cina e i suoi principali partner commerciali, in particolare gli Stati Uniti, che avrebbero potuto interpretare la mossa come un tentativo di Pechino di guadagnare vantaggi competitivi a spese degli altri paesi.
In risposta alle preoccupazioni dei mercati finanziari, la PBOC cerca di rassicurare gli investitori che la svalutazione è una mossa isolata e che la banca centrale continuerà a seguire una politica monetaria prudente e orientata al mercato. Le giustificazioni della Cina non vengono però accolte. Le misure di stimolo economico disposte per sostenere la crescita verranno lette dai mercati come avvisaglia di debolezza, alimentando la speculazione e la volatilità. La svalutazione causerà la fuoriuscita di capitali esteri per un valore tra 700 e mille miliardi di dollari.

Cosa ci insegna il crash del mercato cinese del 2015

Dopo lo scoppio della crisi della valuta cinese del 2015, tra gli investitori si diffonderà una certa paura di stabilità economica e finanziaria del Paese. I mercati azionari cinesi registreranno forti cali, con l'indice Shanghai Composite in calo di oltre il 40% nei mesi successivi. 
Tuttavia, nonostante la turbolenza iniziale, la Cina riuscirà a gestire la crisi del renminbi attraverso una serie di misure: la PBOC continuerà a intervenire sui mercati valutari per stabilizzare il cambio; il governo cinese adotterà misure volte a sostenere l'economia, compresi i tagli dei tassi di interesse e dell'aliquota delle riserve obbligatorie bancarie. 
Con il passare del tempo, la situazione si riassorbirà: la Cina riuscirà ad attuare riforme strutturali che la porteranno, qualche anno più tardi, ad aprirsi ai mercati internazionali, con l’inclusione del renminbi all’interno del paniere FMI. Obiettivo: ottenere un maggiore riconoscimento internazionale, promuoverne l’utilizzo anche al di fuori dei confini cinesi e aprire il Paese all’estero, rendendolo più trasparente. 
Tuttavia, il 2015 esacerberà alcuni problemi strutturali e di lungo periodo, che l’economia del Dragone si troverà a dover affrontare e risolvere negli anni successivi: quella demografica, quella immobiliare e quella del lavoro a basso costo.

In breve, cosa ci insegna il crash del mercato cinese del 2015:

  • L’impatto di una decisione politica di un Paese portata avanti senza il coordinamento internazionale sulla fiducia nella sua economia 
  • Il difficile equilibrio tra promozione della crescita economica e controllo della volatilità finanziaria
  • Gli effetti collaterali di un approccio basato sulla pianificazione centralizzata 
  • Il ruolo cruciale della gestione attiva del rischio, quando si è esposti ai mercati più complessi
  • L’attenzione a politiche di regolamentazione finanziaria più robuste per prevenire crisi sistemiche e proteggere gli investitori
  • Il modo in cui una filosofia tradizionale (nel caso cinese, il confucianesimo) possa far traslare concetti come l'armonia, l'equilibrio governo-mercato e la stabilità sociale nelle politiche economiche
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2016

La crisi delle banche italiane regionali del 2015-2016 ha origine dalla debolezza strutturale degli istituti finanziari, dovuta a una lunga storia di cattiva gestione e prassi di prestiti poco avvedute, nonché all'impatto della recessione economica e delle politiche monetarie accomodanti sulla redditività del settore bancario italiano. 
A seguito delle crisi del 2008 e del 2011, le banche italiane, in particolare quelle di dimensioni più piccole e regionali, si trovano infatti in pancia un'elevata quantità di crediti deteriorati. Questi crediti, noti come performing loan (NPL), incidono pesantemente sui bilanci degli istituti di credito, riducendo la loro capacità di fornire nuova liquidità all'economia reale.
Il governo italiano e le autorità di regolamentazione tentano di intervenire per salvare quattro banche in difficoltà (Banca delle Marche, BancaEtruria - Banca Popolare dell'Etruria e del Lazio, Cariferrara - Cassa di Risparmio di Ferrara, Carichieti - Cassa di Risparmio Provincia Chieti), ma l’entrata in vigore della normativa europea sul bail-in limita le opzioni disponibili. 
La direttiva sul bail-in, che va sotto il nome di Bank Recovery and Resolution Directive, del gennaio 2016, introduce nuove regole per la gestione delle crisi bancarie, spostando il peso del salvataggio dallo Stato (ovvero dai contribuenti) a creditori e azionisti della banca, nonché a tutti gli stakeholders, tra cui anche i correntisti (per la parte di risparmio eccedente la soglia di tutela dei depositi a 100 mila euro). 

Cosa ci insegnano le crisi bancarie del 2016

La crisi delle banche regionali italiane, oltre a evidenziare l’esigenza di un rafforzamento degli istituti di più piccole dimensioni, accelererà il processo di ristrutturazione del settore bancario italiano, con fusioni, acquisizioni e risanamenti delle banche più deboli. 
Parallelamente, le autorità italiane avvieranno iniziative per gestire il crescente volume di crediti deteriorati nel sistema bancario, incluso il trasferimento degli NPL a veicoli speciali e la vendita a investitori esterni. Queste iniziative contribuiranno a ripristinare la fiducia nel settore bancario italiano e a migliorare la sua solidità finanziaria nel lungo periodo.
La crisi spingerà l'Italia e l'UE a implementare riforme normative volte a migliorare stabilità, trasparenza e regolamentazione del settore bancario e a rafforzare la protezione dei depositanti e degli investitori.

Cosa ci insegna la crisi delle banche regionali del 2016:

  • Le conseguenze associate alla cattiva gestione dei prestiti sul mercato (sostenibilità del credito e capacità di soddisfare le nuove richieste di finanziamento)
  • L’importanza della trasparenza e della divulgazione finanziaria accurata come caratteristiche essenziali per garantire la fiducia degli investitori e dei depositanti, riducendo il rischio di crisi di fiducia
  • Il rischio per l’intero sistema bancario dato dall’instabilità di singoli, piccoli, attori
  • Il ruolo degli interventi di salvataggio (sia in caso di bail-in che di bail-out) per mitigare gli effetti dei fallimenti bancari, da gestire con cautela per evitare distorsioni nel mercato
  • L'importanza di una supervisione bancaria robusta e di una regolamentazione efficace per prevenire e gestire le crisi nel settore finanziario
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