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Se ne parla da tempo, anche se la discussione è diventata più accesa negli ultimi mesi. La carne coltivata ha dalla propria parte ragioni etiche e ambientali, ma non mancano i detrattori, convinti che possa penalizzare il settore agro-alimentare classico. Di sicuro, è un settore dalle grandi potenzialità, anche dal punto di vista economico.
La carne coltivata o sintetica è la materia prodotta prelevando cellule animali e replicandole all’interno di specifici bioreattori. Le cellule vengono poi assemblate in modo da riprodurre, anche grazie all’utilizzo di proteine vegetali, consistenza e gusto dei tagli e dei formati di carne che siamo abituati a consumare, dalle bistecche alle polpette. Va quindi fatta una distinzione: la carne coltivata non include i prodotti esclusivamente plant-based, che riproducono la carne utilizzando esclusivamente materia prima vegetale (in particolar modo la soia). Se questi ultimi sono ormai una consuetudine nei supermercati e hanno costi abbordabili, la carne coltivata ha processi produttivi molto più complessi e costi molto più alti.
Essendo un bene alimentare che ambisce a raggiungere una popolazione ampia, il successo della carne coltivata passa prima di tutto dall’abbattimento dei costi. Il primo burger di manzo coltivato, prodotto dall’Università di Maastricht nel 2013, costò ben 325.000 dollari e richiese anni di lavori. Oggi, ha stimato un report di McKinsey del 2021 aggiornato e riproposto nel 2023, i costi sono diminuiti del 99%. Restano alti, ma nei prossimi anni potrebbero raggiungere quelli della carne tradizionale.
Secondo la stessa analisi, il settore della carne coltivata potrebbe valere 25 miliardi di dollari a livello globale entro il 2030. Obiettivo, però, non semplice da raggiungere. Serverebbero infatti nuovi bioreattori, per una capacità complessiva paragonabile a quella di 176 piscine olimpiche: a oggi, la capacità è di una piscina. È un mercato che presenta quindi grandi potenzialità, ma anche grandi ostacoli.
Anche raggiungendo il traguardo stimato da McKinsey, la sostituzione della carne tradizionale è lontanissima, visto che 25 miliardi di dollari equivarrebbero all’1% del mercato globale delle proteine. Il governo italiano, però, sta spingendo una legge che vieti la produzione e la vendita di carne coltivata. La norma è stata approvata e firmata dal presidente della Repubblica, ma è sospesa fino a inizio marzo (con la possibilità di una proroga di ulteriori tre mesi): deve infatti pronunciarsi l’UE, per verificare che la normativa non leda la libertà di circolazione di beni, pilastro dell’Unione Europea.
Le ragioni a sostegnodella carne coltivata sono simili a quelle che supportano una dieta vegetariana o vegana. Sia l’ONU che l’UE (ad esempio nella Farm to Fork Strategy) hanno fissatocome obiettivo la riduzione del consumo di carne. La sua produzione richiede infatti emissioni di gas serra e un consumo di suolo e di risorse nettamente superiore rispetto a una produzione vegetale.
Per ottenere un chilogrammo di carne di manzo, ad esempio, servono circa 60 chili di CO2, contro il chilo scarso necessario per produrre la stessa quantità di piselli. C’è quindi un tema ambientale. La carne coltivata, insieme ai sostitutivi plant-based, potrebbe essere un incentivo per chi volesseseguireuna dieta più green senza rinunciare al gusto della carne. Ultime ma non ultime, le motivazioni etiche: la carne coltivata non richiede la macellazione degli animali.
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