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Alzheimer tra ricerca e prevenzione

L'odissea dell'Alzheimer: tra ricerca e prevenzione

Dicembre 2023

Tempo di lettura: 4 min

L'Alzheimer ha confuso gli scienziati per decenni. Ora finalmente si vedono alcuni segnali di progresso in cure e diagnosi, ma la strada per vincere questa battaglia è ancora lunga.

Nel mondo ci sono oltre 50 milioni di persone affette da demenza e il 55% soffre di Alzheimer. Con l’invecchiamento della popolazione mondiale sarà un trend in crescita, ma per quanto possa sembrare incredibile, per oltre un secolo l'industria farmaceutica non è riuscita a fare progressi nei trattamenti, anche se sono state trovate soluzioni per altri problemi neurologici.

Le sfide per la neurologia

“La neurologia è nel bel mezzo di una rinascita. Cose che prima non pensavamo fossero curabili ora lo sono, abbiamo assistito a incredibili progressi nel modo in cui trattiamo la sclerosi multipla, l’epilessia e persino i tumori al cervello. Ma l’Alzheimer e i disturbi neurodegenerativi rappresentano una sfida particolare, in parte dovuta alla complessità delle malattie che si manifestano in età avanzata”, spiega Matthew Schrag, neuroscienziato e medico presso la Vanderbilt University di Nashville in Tennessee.

Di recente però si sono accesi nuovi segnali di speranza: nel 2021, per esempio, la Food and Drug Administration statunitense ha approvato Aduhelm, il primo nuovo farmaco contro l'Alzheimer dal lontano 2003. Inoltre, nel 2022 la società farmaceutica Eisai ha riportato dati di studi clinici di fase 3 per dimostrare che la sua nuova terapia potrebbe rallentare la progressione dell’Alzheimer del 27% in un periodo di 18 mesi. E a maggio la società farmaceutica rivale Eli Lilly ha riportato notevoli risultati positivi dello studio di Fase 3 su Donanemab, farmaco accolto come un punto di svolta nella lotta per curare l’Alzheimer grazie alla sua capacità di rallentare la perdita di memoria e il declino cognitivo.

Come funzionano i farmaci di ultima generazione?

Tutti questi trattamenti si focalizzano sulla rimozione dal cervello di una proteina chiamata amiloide.

Per capire perché, va tenuto conto che le caratteristiche patologiche della malattia di Alzheimer prevedono la presenza di placche amiloidi e grovigli neurofibrillari formati dalla proteina tau nel cervello. Il loro effetto è impedire ai neuroni di comunicare correttamente, innescando molti processi neurodegenerativi che si manifestano in sintomi come il declino cognitivo, la perdita di memoria, la scarsa capacità di giudizio e il ritiro dalle attività sociali.

Oltre gli amiloidi

Eppure, non tutti sono convinti che sia l’accumulo di amiloide nel cervello a causare l’Alzheimer. I recenti risultati clinici sui farmaci che trattano gli amiloidi sembrano impressionanti in termini percentuali e diversi media specializzati hanno subito parlato di grande svolta. Peccato che,al momento, i benefici siano ancora limitati e le nuove terapie abbiano effetti collaterali, tra cui gonfiore e piccole emorragie cerebrali, oltre a essere cure poco pratiche da somministrare. Infatti, vengono somministrate ai pazienti tramite infusioni endovenose, ma i soggetti in cura devonosottoporsi ogni volta a risonanza magnetica per verificare che non siano emerse emorragie cerebrali o altri effetti negativi.

Ma mentre il dibattito sugli amiloidi prosegue, ci sono altri motivi per incoraggiare la ricerca sull'Alzheimer. Innanzitutto, la diagnostica sta migliorando: grazie ai biomarcatori possiamo rilevare la malattia, individuare i primi cambiamenti nel cervello e monitorare le risposte ai farmaci o agli interventi.

Conoscere meglio l’Alzheimer

Inoltre, i ricercatori stanno avanzando su molti fronti, dall’infiammazione al ruolo dei vasi sanguigni, dallo stress ossidativo alla funzione sinaptica fino al sonno. Tutti obiettivi di alto profilo per conoscere meglio una malattia che può svilupparsi nel corso di decenni prima di diventare evidente.

Schrag ritiene che migliorare la nostra comprensione dei processi metabolici potrebbe essere fondamentale: “nel cervello si accumulano molte proteine che non gli appartengono e penso che questa sia una forte argomentazione per guardare ai sistemi di “pulizia”del cervello, piuttosto che cercare semplicemente di eliminare le proteine”.

L’altra buona notizia è che anche la ricerca preventiva sta guadagnando terreno: esistono oltre un centinaio di studi solo negli Stati Uniti su interventi non farmacologici come training cognitivo, esercizio fisico e dieta.

Infine, l'Alzheimer potrebbe anche trarre beneficio dai miglioramenti degli interventi neurologici in generale. “Abbiamo la capacità di inserire cateteri nel cervello e rimuovere coaguli e c’è stata un’esplosione di software di Intelligenza Artificiale che ha contribuito a far sì che le cose si muovessero più velocemente e in modo più affidabile”, conclude Schrag.