Sono in molti a pensare che la Cina abbia realizzato quella che, probabilmente, è la trasformazione economica più straordinaria della storia.
Dal suo ingresso nell'Organizzazione Mondiale del Commercio, nel 2001, il Paese ha raddoppiato il suo PIL pro capite ogni otto anni, triplicato la spesa per ricerca e sviluppo ed è diventato leader mondiale nella tecnologia ambientale, 5G e intelligenza artificiale. C’è quindi una concreta possibilità che diventi la principale economia globale entro la fine del decennio.
Va detto che tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la sua squadra di riformatori, che ha svolto un ruolo di primo piano nella metamorfosi del Paese.
In effetti, le attività di investimento di Pictet Asset Management in Cina si basano in parte sulla convinzione che i tecnocrati mercatocentrici possano esercitare un'influenza duratura sul regime comunista. Non si esclude che, grazie alla loro competenza ed esperienza, la potenza asiatica possa trasformarsi nel giro di pochi anni in un terreno di caccia fertile per gli investitori internazionali.
Gli avvenimenti più recenti, però, suggeriscono che potrebbe essere necessario rivedere le nostre aspettative: la seconda economia più grande al mondo sembra ora avere in mente un percorso diverso.
Il rimpasto della leadership svelato nel corso del Congresso del Partito Comunista a ottobre ci introduce in uno scenario imprevisto, nel quale il presidente Xi Jinping assumerà un controllo pressoché totale della politica governativa. Dopo essersi assicurato uno storico terzo mandato, Xi ha disorientato anche gli osservatori politici più esperti, collocando i suoi fedelissimi negli organi politici più importanti: il Comitato permanente del Politburo e il Politburo allargato composto da 24 membri. Si tratta di una mossa che va a intaccare il sistema di controlli e contrappesi alla base della politica cinese degli ultimi 20 anni, oltre a indicare un futuro in cui la visione di Xi di una "prosperità comune" guidata dallo stato, eclisserà la possibilità di perseguire una crescita del settore privato.
Di conseguenza, gli investitori negli asset cinesi dovranno affrontare alcune scelte difficili.
Disinvestire è un'opzione allettante: molti investitori potrebbero giungere alla conclusione che, con una gestione dell'economia sempre più centralizzata e sempre meno trasparente, in futuro la volatilità dei mercati finanziari cinesi sarà considerata semplicemente troppo elevata, indipendentemente dai rendimenti che potrebbero generare. Inoltre, la probabile estensione delle politiche che di recente hanno frenato la crescita (tolleranza zero per il COVID, strette normative su grandi società ad alta redditività, controllo inefficace del mercato immobiliare in difficoltà) non è certamente una ricetta per gli investimenti di successo.
La rinnovata enfasi posta dal presidente Xi sull'importanza di ridurre le disuguaglianze sociali e frenare la ricchezza eccessiva, è inoltre destinata a creare contrasti con l'élite economica cinese. È probabile che qualsiasi azienda con una redditività del capitale proprio superiore al 15% attirerà l'attenzione delle autorità di regolamentazione.
Ma esiste un'alternativa all'uscita dalla Cina. La strada più sensata per gli investitori potrebbe essere quella di allineare le proprie partecipazioni alle priorità a lungo termine del governo cinese. Questa è la nostra posizione di default, anche perché riteniamo che la Cina sia troppo estesa e troppo profondamente radicata nel sistema economico e finanziario globale per poter essere ignorata. In pratica, si tratterebbe di allocale il capitale nelle società che operano in quelli che Pechino considera settori strategici. In cima alla lista si trova il settore dell'energia pulita, il cui sviluppo è considerato prioritario dal governo. Gli analisti prevedono che, nei prossimi anni, la crescita degli utili tra le aziende operanti nel settore delle energie rinnovabili supererà di gran lunga quella della maggior parte delle altre aziende. È inoltre significativo il fatto che il presidente Xi abbia utilizzato la platea del Congresso del Partito Comunista per ribadire l'impegno della Cina a raggiungere le zero emissioni nette entro il 2060 (si veda il grafico).
Un altro settore che offre un buon potenziale di investimento è la medicina, nel quale la Cina sta diventando rapidamente competitiva. Dalle università del Paese escono ogni anno circa 4,7 milioni di ingegneri e questo rappresenta senza dubbio un grande vantaggio nello sviluppo di tecnologie complesse, come la biotecnologia, le scienze biologiche e la chirurgia robotica. Inoltre, se il governo riuscisse a spostare il baricentro dell'economia dalle esportazioni ai consumi interni, i tempi potrebbero rivelarsi eccezionalmente fertili per le società cinesi di beni di consumo e del settore finanziario.
Tutto ciò, però, non riduce di certo le nuove difficoltà legate agli investimenti in Cina. Per le azioni e le obbligazioni cinesi, questo cambiamento delle priorità e dell'approccio del governo potrebbe comportare l'inclusione di un premio di rischio politico più elevato, almeno nel breve termine, ma probabilmente anche nel lungo.
A complicare ulteriormente le cose si aggiunge la scarsità di dati affidabili. Da quando Xi è al potere, la Cina ha ridotto di circa tre quarti il numero delle statistiche economiche pubblicate, il che rende necessario che gli investitori abbiano una comprensione molto più approfondita della politica cinese, impresa estremamente complessa per chi non dispone di risorse sul campo.
Ad ogni modo, è altrettanto chiaro che la Cina non può sperare di raggiungere i suoi obiettivi senza il capitale estero. Il suo crescente deficit fiscale (attualmente pari a 1.000 miliardi di dollari) e le sue ambizioni industriali sono un forte incentivo a tenere aperta la porta agli investimenti internazionali. Gli investitori esteri, quindi, vedranno ancora emergere nuove opportunità. Ciò significa che la Cina (le sue azioni, le sue obbligazioni e la sua valuta) dovrebbero rimanere una costante di ogni portafoglio di investimento globale.
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