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Qualcuno la chiama già “smart working fatigue”, per indicare le conseguenze che il lavoro da casa forzato dovuto alla pandemia ha prodotto sulle vite dei lavoratori. E in particolare sul work-life balance, ovvero il rapporto tra vita lavorativa e vita privata.
L’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha condotto un’indagine per fare un bilancio di dieci mesi di lavoro da remoto nell’ateneo. E gli esiti non sono affatto positivi: le esperienze più diffuse vanno dall’ansia alla percezione di una riduzione della qualità della vita, dalla riduzione del tempo libero all’aumento incontrollato delle ore di lavoro.
Due intervistati su tre avvertono una profonda invasione delle tecnologie nelle proprie vite, con un utilizzo superiore alle sei ore al giorno per la maggior parte del campione, inclusi i fine settimana e i giorni di festa o in orario considerato prima extra-lavorativo. Oltre la metà degli intervistati (55%) riferisce una sensazione di invasione di campo, con una interferenza tra vita privata e vita lavorativa, in cui si fatica a ridefinire gli equilibri personali.
Il 67% dice che la propria vita personale è stata aggredita dalle tecnologie e la percentuale supera l’80% tra chi trascorre più di otto ore al giorno online, sottraendo anche tempo alla cura di sé. Un lavoratore su due che lavora da casa percepisce infatti di lavorare più del solito, senza momenti di pausa.
Il lavoro da remoto, nell’anno orribile della pandemia, ci ha messo di fronte al bisogno di imparare a conciliare meglio lavoro e vita personale, soprattutto per chi ha figli minorenni, rimasti per molto tempo in casa a causa della chiusura di scuole e asili nido. Un bisogno che emerge – dopo il boom dello smart working – sia da parte dei lavoratori, sia da parte dei manager, che dovranno sempre più occuparsi del benessere dei dipendenti.
Il work-life balance, infatti, resta uno dei fattori maggiormente ricercati dai lavoratori nella scelta di un’azienda, stando ai risultati emersi dal Randstad Employer Brand Research 2020. Un buon equilibrio tra vita privata e vita lavorativa è, infatti, ritenuto vitale per il 52% del campione coinvolto dall’indagine ed è in vetta alla classifica degli elementi più ricercati dai potenziali dipendenti in un’azienda.
Già prima dell’emergenza coronavirus, il 71% dei lavoratori italiani diceva di essere sempre connesso per rispondere a eventuali richieste del datore di lavoro. E il ricorso massiccio ed emergenziale allo smart working, non sempre stato adeguatamente regolamentato, ha fatto esplodere queste criticità.
Se da una parte il ricorso al lavoro agile ha portato indubbi vantaggi (logistici ed economici), dall’altro non sono mancati gli effetti collaterali. Su tutti, appunto, il mancato rispetto del diritto alla disconnessione. Con le tecnologie che in molti casi hanno reso impossibile operare una distinzione tra lavoro e sfera privata.
L’Harvard Business Review, già nel 2018, invitava a porre attenzione al rischio di burnout tra i lavoratori in smart working, ricordando come questa modalità di lavoro richieda sforzi sia ai lavoratori – che devono imparare a coniugare senza sovrapposizioni diversi ambiti della propria vita – sia ai loro capi. L’efficienza dei lavoratori, infatti, migliora con livelli contenuti di smart working, ma diminuisce con uno “smart working eccessivo”.
Secondo quanto riporta PwC Italia nel suo ultimo paper dedicato allo smart working, il passaggio a una nuova fase di ampia diffusione di questa modalità di lavoro richiede ora un nuovo intervento che faccia chiarezza su alcuni temi, a partire proprio dall’equilibrio da trovare tra vita privata e vita lavorativa e un nuovo diritto alla disconnessione.
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