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Era il 1997 quando il capitano di marina e oceanografo Charles Moore attraversò per la prima volta un enorme ammasso di plastica nell’oceano Pacifico, precisamente al largo delle coste californiane. Questa orribile entità creata dall’uomo ha diversi nomi, i più famosi sono Pacific Trash Vortex e Great Pacific Garbage Patch (GPGP). Contrariamente a quanto si possa pensare non è il risultato di grandi ammassi di spazzatura, ma è l’insieme di miliardi di piccolissimi pezzi di plastica con qualche rete, qualche boa e qualche cassetta incastrate qua e là.
“Quella è una zona morta, non ho incontrato praticamente alcuna forma di vita animale” ha raccontato l’esploratore Alex Bellini nel 2019. Era da poco rientrato da una spedizione nel Pacifico all’interno del progetto 10 Rivers 1 Ocean, che ha l’obiettivo di sensibilizzare le persone sull’impatto dei nostri consumi sul pianeta, e aveva ancora negli occhi quella impressionante zuppa di plastica: “Mentre stavo in quel luogo desolante, mentre osservavo quello che raccoglievo con il retino, come se fosse materia aliena, avevo la sensazione che in realtà un’altra volta alcuni di quei pezzettini fosse già passato tra le mie mani”, ha spiegato. “E mi chiedevo: ma ho fatto davvero tutto il possibile per evitare che arrivasse fin qui? O preso dall’ottimismo e dalla convinzione che qualcuno si sarebbe occupato di questo rifiuto ho contribuito a fargli compiere il viaggio che l’ha portato fin qua?”. Una domanda che dovremmo farci tutti se vogliamo preservare il nostro Pianeta.
La plastica ammassata nei nostri mari e nei nostri Oceani finisce ovunque, persino nella birra. Lo ha spiegato l’Università tedesca di Oldenburg nel suo studio su 24 diverse birre: ogni bottiglia aveva granuli, frammenti o fibre di plastica. Nessuna esclusa. Non è soltanto l’acqua utilizzata per produrre la birra a contenere plastica, ma con ogni probabilità anche il malto e il luppolo. Infatti, secondo un’analisi dell’Università australiana di Newcastle, commissionato dal WWF, l’acqua è la maggiore fonte di microplastiche per gli organismi viventi e l’uomo ne assume ogni giorno 5 grammi, pari a circa una carta di credito alla settimana.
Nel Pacifico, per ora il principale terreno di questa triste battaglia, lo scorso anno è stata testata con successo la tecnologia di “The Ocean Cleanup”, inventata nel 2013 dal diciottenne olandese Boyan Slat. È un metodo passivo che sfrutta un sistema galleggiante che varia tra uno e due chilometri di lunghezza con una forma “a U” e ha un’ancora galleggiante che lo frena a circa 600 metri di profondità. Sotto al tubo è posizionato un pannello rigido che intercetta le plastiche che incontra appena sotto la superficie dell’acqua. La plastica viene così spinta verso un punto centrale del sistema dove le navi possono raccoglierla e riportala a riva. Certo, se non ci fosse stata la necessità di utilizzarlo sarebbe stato meglio. Ma ormai è tardi per piangere sulla plastica versata in mare.
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