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Il presidente del Consiglio Mario Draghi lo ha detto con chiarezza: “Non siamo ancora in un'economia di guerra”, ma è necessario prepararsi. Colpisce, sia pure con una smentita, che quelle tre parole – economia di guerra – siano state pronunciate dal capo del governo e trovino ormai spazio sui tavoli internazionali. Ma cos'è l'economia di guerra, come si presenta (o si presenterebbe) oggi?
L'economia di guerra è l'adeguamento di un intero sistema produttivo nazionale allo sforzo bellico. La definizione, piuttosto ampia, riguarda diversi aspetti, che vanno dall'industria all'energia fino alla composizione della spesa e dei consumi.
Nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale, lo sforzo è stato massimo. Interi settori – a partire dall'industria metallurgica - si sono convertiti alla produzione di armamenti. E ogni risorsa disponibile è stata spinta in quella direzione, drenando non solo i comparti che hanno trasformato i propri impianti ma anche altri settori, come quello alimentare, caratterizzati da un forte razionamento dei beni.
L'economia di guerra, dunque, trasforma completamente l'organizzazione di uno Stato, facendo del conflitto, degli armamenti e del mantenimento dell'esercito le priorità assolute. Con un altro effetto collaterale: l'economia di guerra tende ad accelerare e assorbire alcune tecnologie, favorendo l'osmosi tra innovazioni civili e belliche. Basti pensare a telegrafo, motore a scoppio, energia nucleare. La stessa Internet ha le proprie radici in un progetto militare statunitense ai tempi della guerra fredda.
Come è evidente dalla descrizione appena fatta, siamo ancora ben lontani da un'economia di guerra vera e propria. Oltretutto, l'organizzazione economica dei Paesi coinvolti e gli strumenti bellici utilizzati sono totalmente diversi rispetto al secondo conflitto mondiale.
L'avvicinamento a un'economia di guerra implica quindi, al momento, una differente gestione di alcune risorse. In un'intervista a La Repubblica, Stefano Manzocchi, docente di economia internazionale e prorettore per la ricerca alla Luiss Guido Carli, ha parlato di “un'economia delle scorte più che di un'economia di guerra”. Nel caso della Russia, la gestione dell'energia ne è l'emblema: l'Italia – così come altri Paesi – ha accelerato il processo di affrancamento dal gas proveniente da Mosca. Ma è un cambiamento che richiede tempo. La prospettiva di un razionamento energetico, quindi, non è certo esclusa. Le stesse misure potrebbero riguardare anche altri beni.
A oggi, l'economia di guerra si traduce nella prospettiva di un rallentamento economico accompagnato da forte inflazione. Il PIL europeo ha già subito una frenata: dal 4,2% previsto prima del conflitto, la BCE arriva – nello scenario più cupo – a indicare una crescita del 2,3%. Cioè due punti percentuali in meno. Un dato preoccupante se combinato con l'aumento dei prezzi. Si sta quindi concretizzando il rischio della cosiddetta stagflazione: economia stagnante e forte inflazione. Una miscela che potrebbe pesare su intere filiere, imprese e famiglie.
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