Salvo diversa indicazione, tutti i dati contenuti in questa pagina provengono dalla relazione Climate Change and Emerging Markets after COVID-19, redatta a ottobre 2020.
Cambiamento climatico e mercati emergenti dopo il COVID-19
Entro la fine del secolo, il mondo perderà quasi la metà della sua produzione economica potenziale . Questo è quanto ci aspetta se non riusciremo a compiere ulteriori progressi sul cambiamento climatico.
Ma questa è solo una media. I mercati emergenti rischiano di andare ancora peggio, data la loro particolare vulnerabilità all'innalzamento del livello dei mari, alla siccità e al crollo della produzione agricola.
È uno scenario deprimente. Ma ci sono anche motivi di speranza.
Il consenso scientifico sul cambiamento climatico è ormai ampiamente condiviso e i governi, le singole persone e le aziende hanno iniziato ad agire. Grazie a una riflessione approfondita e a una pianificazione attenta è possibile fare molto di più. Soprattutto nel mondo emergente.
Ovunque, l'ingegno umano, i progressi tecnologici e la consapevolezza derivanti dall'esperienza e dall'istruzione sono tutte forze positive che guideranno l'impegno per contenere il cambiamento climatico e aiutarci ad adattarci ai suoi effetti.
Questo documento redatto dal Professor Cameron Hepburn e dal suo team presso la University of Oxford Smith School of Enterprise and the Environment offre un'analisi ampia e approfondita dei rischi e delle opportunità che le economie emergenti, e il mondo più in generale, devono affrontare in relazione al cambiamento climatico. Le loro conoscenze si basano sulle più recenti tecniche di modellazione economica e climatica.
È una ricerca che noi di Pictet Asset Management siamo orgogliosi di aver sponsorizzato. Le dinamiche descritte in questa relazione avranno un ruolo fondamentale per gli investitori nei prossimi decenni. Il ritmo con cui i governi agiranno determinerà il modo migliore di allocare il capitale, a livello regionale o tra le classi di attivi.
La nostra responsabilità in qualità di gestori dei patrimoni dei nostri clienti consiste nel comprendere le forze che plasmano il mondo, non solo nel prossimo trimestre o in quello successivo, ma a volte anche nel corso della vita; in effetti, questo è lo spirito del nostro pionieristico approccio tematico. Si tratta, inoltre, di un approccio basato sul nostro impegno a investire nei mercati emergenti, che, nonostante le fluttuazioni di breve termine, presentano il maggiore potenziale di crescita economica nel lungo termine. Pensate solo agli enormi progressi compiuti da questi Paesi negli ultimi decenni.
Queste sono le basi su cui Pictet è cresciuta negli ultimi due secoli. Ma grazie al talento dei nostri analisti, economisti e gestori, sappiamo che c'è sempre molto da imparare. Per quasi un millennio, la comunità accademica di Oxford ha creato un bagaglio di conoscenze che ha influito profondamente sul corso dell'umanità. La nostra stessa storia dimostra il successo della scelta di assumere una prospettiva di lungo termine.
Ecco perché abbiamo dato vita a questa collaborazione con la Oxford Smith School. Grazie alla loro vasta esperienza in materia di economia ambientale ed economie emergenti...
...Il Professor Hepburn e il suo team hanno elaborato informazioni introvabili altrove.
E, cosa straordinaria, lo hanno fatto attraverso la lente di uno degli eventi globali più traumatici nella memoria moderna.
Ad aggravare la sfida di come affrontare il pericolo a lungo termine rappresentato dal cambiamento climatico è intervenuta una crisi più immediata: la pandemia di COVID-19, che ha sconvolto le comunità di tutto il mondo. Come sottolinea questo documento, gli ingenti pacchetti fiscali e monetari che i governi continuano a mettere in campo per sostenere le loro economie nel breve termine possono contribuire in modo considerevole anche a limitare il riscaldamento globale nei prossimi decenni, se le risorse verranno investite in modo intelligente.
Fortunatamente, il peggiore dei casi, ossia non riuscire a fare null'altro per prevenire il riscaldamento globale rispetto a quanto già fatto, è improbabile. I governi, le aziende e i singoli individui hanno riconosciuto la necessità di agire e hanno messo in atto delle misure concrete.
Il problema è piuttosto: quanto stiamo facendo? Non possiamo dare per scontato che tutto l'impegno proverrà dal mondo sviluppato. I Paesi emergenti rischiano di pagare un prezzo sproporzionato per gli effetti del riscaldamento globale. E riteniamo che siano all'altezza della sfida, anche perché l'adozione di misure contro il cambiamento climatico è un investimento che spesso porta notevoli benefici, non solo nel lungo termine.
In alcune aree, le economie emergenti sono ben posizionate per assumere persino un ruolo di guida. La Cina fa già la parte del leone nella produzione di celle fotovoltaiche, è in prima linea nella ricerca e sviluppo ed è uno dei Paesi a maggior tasso tecnologico. Le energie rinnovabili combinate con sistemi energetici decentralizzati potrebbero aiutare altre economie emergenti a smarcarsi dalla necessità di massicci investimenti in grandi reti. E man mano che le energie rinnovabili diventeranno più convenienti, molti di questi Paesi potrebbero finire col disporre di energia più economica rispetto alle controparti dei Paesi sviluppati.
Alcune delle misure che i governi stanno adottando, come il reindirizzamento dei sussidi per i combustibili fossili verso le fonti di energia rinnovabili, saranno inizialmente impopolari perché in contrasto con alcuni interessi di settore. Ma il vantaggio economico è evidente. Man mano che il costo dell'energia generata dalle energie rinnovabili diminuirà, i combustibili fossili diventeranno sempre meno interessanti e grandi infrastrutture dedicate alla produzione e all'uso di combustibili fossili verranno dismesse.
In ultima analisi, il lavoro svolto dal Professor Hepburn e dal suo team ci lascia ben sperare. Le sfide poste dal cambiamento climatico sono enormi, ma non insormontabili. E, in tutto questo, il mondo emergente ha sia un ruolo attivo da svolgere sia ricompense da raccogliere.
Il cambiamento climatico causerà enormi danni alle economie, soprattutto nei Paesi emergenti. Se non si farà nulla per rallentare l'aumento della temperatura globale, in Cina la popolazione potrebbe essere più povera del 25% entro la fine del secolo rispetto al caso in cui non vi fossero ulteriori cambiamenti climatici. Per Brasile e India, la differenza potrebbe superare il 60%, secondo il modello elaborato dal team di economisti ambientali della Smith School della Oxford University in una nuova relazione sponsorizzata da Pictet Asset Management.
A livello globale il danno potrebbe raggiungere, nel peggiore dei casi, circa 500.000 miliardi di dollari: quasi la metà della potenziale produzione economica mondiale andrebbe persa entro la fine del secolo rispetto al dato potenziale in assenza di un ulteriore riscaldamento globale. Ma questo impatto non sarà distribuito in modo uniforme. Alcune delle principali economie emergenti sono esposte a un rischio maggiore, in particolare se lasceranno il pesante compito di rallentare il cambiamento climatico al mondo sviluppato e offriranno un contributo limitato. Particolarmente esposti a fattori quali l'innalzamento del livello dei mari, alla siccità e a gravi eventi atmosferici, questi Paesi devono intervenire per limitare il cambiamento climatico.
Fortunatamente, sono sempre più consapevoli che l'impegno porterà dei vantaggi. In tutto il mondo, le persone sono consapevoli delle sfide poste dal cambiamento climatico e sanno che queste comportano una perdita di biodiversità, maggiori inondazioni, terreni agricoli aridi, incendi boschivi ed eventi simili. E quindi i governi sono costretti ad agire. Ciò rende lo scenario peggiore relativamente poco probabile.
Ma il semplice rispetto delle politiche attuali non è sufficiente. La perdita di PIL potenziale pro capite sarebbe inferiore, ma non di tanto. Nel migliore dei casi, la perdita di PIL potenziale pro capite potrebbe essere ridotta dal 46% al 32%. E questo senza considerare gli effetti a cascata, impossibili da prevedere, in cui piccoli cambiamenti incrementali potrebbero portare improvvisamente a un risultato catastrofico.
Tuttavia, agendo collettivamente, i Paesi potrebbero recuperare una parte significativa della produzione persa in precedenza. Ciò significa un intervento da parte sia dei Paesi sviluppati che di quelli in via di sviluppo.
Lo scenario delle “politiche attuali” del team di Oxford prevede che, qualora gli sforzi provenissero solo dai Paesi più ricchi, il riscaldamento globale sarebbe superiore di circa 2,8°C rispetto ai livelli preindustriali, con un grado di riscaldamento già avvenuto. Se si riuscisse a ridurre tale aumento di temperatura a 1,6°C, tramite un programma ambizioso che comprendesse anche le economie emergenti, le potenziali perdite potrebbero ridursi a un quarto, se non meno.
E in questo momento c'è un'opportunità unica per i Paesi, ricchi e poveri, di compiere progressi radicali per ridurre la probabilità di un cambiamento climatico catastrofico. La pandemia di COVID-19 è stata un enorme shock a livello globale. Le misure adottate per la salute pubblica, come i lockdown, hanno comportato ingenti costi finanziari. I governi hanno reagito rapidamente e si sono impegnati destinando vasti importi alla ripresa economica. In molti casi ha senso, dal punto di vista finanziario, che questa spesa sia diretta verso misure che contengono il cambiamento climatico.
Cina e India si stanno impegnando per esercitare una maggiore influenza geopolitica all'interno del mondo emergente, e oltre. Hanno parecchi obiettivi. Ad esempio, la Cina punta a essere leader mondiale nella tecnologia dell'intelligenza artificiale, l'India mira invece a prendere il posto della Cina nel settore manifatturiero. Ma nel lungo periodo di certo non raggiungeranno i loro obiettivi attraverso un conflitto armato per il possesso di un ghiacciaio sull'Himalaya.
Lo potranno fare invece solo collaborando verso lo stesso obiettivo: limitare il riscaldamento globale. E, così facendo, garantiranno anche la sopravvivenza del ghiacciaio che entrambe rivendicano.
Uno sforzo importante e comune per limitare l'aumento delle temperature globali nei prossimi decenni produrrà vantaggi significativi non solo in Cina e India, ma anche per le economie emergenti in generale. Se i Paesi sviluppati ed emergenti collaborassero per limitare il riscaldamento globale, potrebbero riuscire a dimezzare la perdita di produzione a cui andranno altrimenti incontro entro la fine del secolo.
Rispetto alle controparti sviluppate, le economie emergenti sono molto più esposte al rischio di un aumento delle temperature globali. Ad esempio, secondo il modello della Smith School della Oxford University contenuto nella relazione sponsorizzata da Pictet Asset Management, le principali città di tutto il mondo affrontano perdite annue tra 300 miliardi e 1.000 miliardi di dollari di produzione dovuti all’innalzamento del livello dei mari correlato al cambiamento climatico. La Cina da sola ha 15 città che rischiano di perdere fino al 4,7% del PIL pro capite all'anno a causa dell'innalzamento del livello dei mari.
Ma le preoccupazioni della Cina per il riscaldamento globale non finiscono qui. Le temperature nel Paese sono aumentate più rapidamente rispetto alla media globale. Le proiezioni attuali prevedono un calo del 13% della produzione delle colture del Paese entro il 2050, rispetto al 2000.
Nel frattempo, l'India è uno dei Paesi che subisce maggiormente i danni del riscaldamento globale, rischiando una contrazione di oltre il 60% del PIL pro capite entro la fine del secolo, rispetto al caso di temperature invariate. Un clima più caldo minaccia i livelli di produttività del Paese. Gli effetti a catena sull'istruzione si dimostreranno un freno per l'accrescimento del capitale umano e quindi per lo sviluppo economico. Anche la produzione agricola diminuirà.
Tra le principali economie dei mercati emergenti, solo la Russia potrebbe beneficiare dell'aumento delle temperature globali, almeno a giudicare dalle apparenze. Lo scioglimento dell’oceano Artico consentirebbe di liberare dai ghiacci una parte maggiore della costa russa, aprendo la regione al commercio e allo sfruttamento delle ricche risorse naturali della regione. Ma, attenzione: questo scenario non tiene conto dell’impatto che il cambiamento climatico avrebbe sulla domanda di merci russe da parte di altri Paesi. Il calo del PIL in altre regioni del mondo molto probabilmente danneggerebbe le esportazioni russe.
La pandemia di COVID-19 ha sconvolto le economie di tutto il mondo. Infrastrutture e sistemi sanitari deboli, dipendenza dalle materie prime e dal turismo per il reddito e livelli di indebitamento elevati hanno penalizzato in modo sproporzionato i mercati emergenti.
Ma guardando oltre il breve termine, le prospettive di questi Paesi sono promettenti. Vasti stimoli fiscali e monetari sono confluiti nel sistema finanziario globale, dato che ovunque i governi cercano di contenere l'impatto della pandemia sulle loro economie. Una quota considerevole è stata destinata alle infrastrutture. È fondamentale che i governi siano in grado di ristrutturare le loro economie in modo non solo da aumentare la produttività, ma anche da rispettare l'ambiente - per ricostruire meglio. Infatti, in molti casi la linea d'azione più attenta all'ambiente è anche la più sensata dal punto di vista economico per i mercati emergenti, secondo una relazione della Smith School della Oxford University sponsorizzata da Pictet Asset Management.
Anche prima del COVID-19 il potenziale per investimenti verdi delle economie emergenti era enorme. Secondo le stime della Banca Mondiale, l'accordo di Parigi ha spianato la strada a circa 23.000 miliardi di dollari di opportunità legate al clima nei mercati emergenti fino al 2030.
Finora, le loro prestazioni sono state altalenanti. Eppure c'è uno slancio politico, alimentato da un forte sostegno popolare, per una ripresa verde dal COVID-19, diverso dagli impulsi precedenti come l'accordo di Kyoto del 1997. Gli sforzi governativi sono stati incrementati e riflettono la crescita di un attivismo per l'ambiente da parte dei singoli individui, delle aziende e delle comunità.
Non che siano strettamente necessarie nuove risorse. Ad esempio, nel 2019 i sussidi pubblici per la produzione e il consumo di carbone, petrolio e gas ammontavano a circa 500 miliardi di dollari, rispetto ai 100 miliardi di dollari per le energie rinnovabili.
In molti casi, questo sostegno viene fornito dai governi delle economie meno sviluppate allo scopo di ingrandire pozzi petroliferi e di gas o di fornire alle loro popolazioni energia a basso costo. Tuttavia, semplicemente invertendo questi sussidi, si compierebbero enormi passi avanti per la lotta al cambiamento climatico. E si risparmierebbero decine di miliardi di dollari a causa della perdita di attività.
Sono già a rischio tra 5.000 e 17.000 miliardi di dollari di attivi se i governi decideranno di perseguire una strategia con obiettivi ambiziosi che consenta di limitare il riscaldamento a 1,6°C. Questo è il valore delle infrastrutture e degli altri beni che dovrebbero essere dismessi per raggiungere il tasso di riscaldamento minimo negli scenari di Oxford. Ulteriori investimenti in beni fossili non fanno che aumentare il valore delle attività bloccate.
Secondo FTSE Russell, l'economia verde costituisce già circa il 6% del mercato azionario mondiale. Affinché si espanda ulteriormente, gli investimenti dovranno andare oltre il settore energetico, che attualmente riceve la maggior parte dei finanziamenti per la riduzione delle emissioni di carbonio, e coinvolgere l'agricoltura, i trasporti e la silvicoltura, tra gli altri.
Le significative modifiche strutturali che le economie devono affrontare per contenere il cambiamento climatico assorbiranno grandi quantità di finanziamenti per un lungo periodo, ma occorrono anche finanziamenti per le numerose misure più piccole ed economicamente vantaggiose che possono essere adottate per adeguarsi all'aumento delle temperature globali. Ad esempio, si stima che i sistemi di allarme preventivo per tempeste e ondate di calore consentiranno un risparmio in termini di risorse e vite umane pari a dieci volte il loro costo. Nel complesso, l'adattamento rappresenta attualmente solo lo 0,1% degli investimenti privati legati al clima.
Il passaggio ad approcci più verdi è inevitabile. L'economia si sta muovendo in questa direzione. La finanza la seguirà. I governi e gli investitori privati probabilmente avvertiranno i primi segnali e allocheranno il capitale di conseguenza.
Cameron Hepburn è professore di Economia ambientale presso l'Università di Oxford e direttore della Smith School of Enterprise and the Environment. È inoltre direttore del Programma di Economia e Sostenibilità presso l'Institute for New Economic Thinking della Oxford Martin School.
Cameron ha pubblicato molti articoli su energia, risorse e sfide ambientali in vari ambiti, tra cui ingegneria, biologia, filosofia, economia, politica pubblica e legge, forte delle sue lauree in legge e in ingegneria (Università di Melbourne), nonché di una laurea magistrale e un dottorato in Economia (Oxford come Rhodes Scholar). Ha co-fondato tre aziende di successo e ha fornito consulenza in materia di energia e politica ambientale ai ministri di alcuni governi (ad es. Cina, India, Regno Unito e Australia) e alle istituzioni internazionali (ad es. OCSE, ONU).
I co-autori di questo documento sono i ricercatori dell'Università di Oxford, Francois Cohen, Matthew Ives, Sugandha Srivastav, Moritz Schwarz, Yangsiyu Lu, Penny Mealy, Paulo Bento, Maffei De Souza e Luke Jackson.
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La Smith School of Enterprise and the Environment è stata fondata nel 2008 grazie alla generosità di Sir Martin e Lady Elise Smith e della loro famiglia, convinti che per affrontare il cambiamento climatico e favorire la sostenibilità ambientale sia essenziale coinvolgere le aziende.
La Smith School cerca di applicare ricerche pertinenti alle aziende per definire pratiche aziendali, politiche governative e impegno degli stakeholder. La Smith School si concentra sull'insegnamento, la ricerca e il coinvolgimento delle imprese e collabora con le imprese sociali, le aziende e i governi. Il suo obiettivo è offrire soluzioni innovative alle sfide che l'umanità e le aziende moderne devono affrontare nei prossimi decenni.
La sua attenzione è rivolta all'economia e alla politica ambientale, nonché alla gestione aziendale, ai mercati finanziari e agli investimenti. Ha la sua sede presso la School of Geography and the Environment dell'Università di Oxford, un dipartimento ai vertici della classifica di QS World University. La Smith School lavora a stretto contatto con numerosi accademici di Oxford, con 1.000 ricercatori attivi nel settore delle scienze sociali. Il suo personale ha anche incarichi trasversali presso la Saïd Business School dell'Università di Oxford, la Oxford Martin School e l'Institute of New Economic Thinking.
L'Università di Oxford è uno dei più importanti istituti di ricerca accademica al mondo, costantemente al primo posto delle classifiche universitarie mondiali.
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